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Arte

Quattro passi alla luce del sole

“Che si viaggi e si giunga lontano, o che si superino alte vette, bisogna comunque iniziare da un singolo pollice.

Così l’unico tratto avvolge tutto, fino ai limiti estremi, e solo grazie ad esso nascono e si compiono le infinite pennellate, che dipendono dalla capacità e dal controllo dell’uomo” (Shitao, “Sulla Pittura, ed. Mimesis, Milano, 2008).

E’ noto come l’artista contemporaneo abbia tolto dalle proprie mani gran parte delle sue opere, arrivando spesso a commissionare come un appalto esterno l’esecuzione materiale dei suoi memorabili capolavori. E’ interessante notare come questo approccio sia per certi versi direttamente proporzionale allo scadimento dei valori tonali e di sfruttamento delle proprietà intrinseche dei pigmenti e dei materiali da cui si discosta. 

Compiendo quattro passi dentro l’Accademia di Brera di Milano si può trovare un esempio di questo cambiamento nella percezione della fisicità della propria opera d’arte quando si incontra, quasi all’improvviso, una piccola parete che si trova tra le grandi sale dedicate al Cinquecento italiano (su tutti il Giovan Battista Moroni e il Savoldo magistralmente restaurato qualche anno fa). Tra un Braque e un Afro si avverte come una caduta di questa luce che non è, evidentemente, soltanto un espediente visivo. L’utilizzo di un supporto non preparato o mal predisposto, ad esempio, non consente al pigmento di emanare le sue caratteristiche intrinseche di luminosità o di semplice rifrazione della luce. Oggi si crede di potere sostituire un bagaglio tecnico oggettivo con quel genere di nozioni soggettive da circolo del tè, esponendo a casaccio fili, rami, catene, disinteressandosi del degrado a cui sono soggetti questi materiali di recupero, nella convinzione che la filosofia smarchi, in qualche modo, dalle impellenze tecniche, mentre un artista dovrebbe stare a sgranare le proprie astrazioni.

L’uso vigoroso e plastico del bianco di piombo nel Tiziano di Brera

Se prendiamo ad esempio il magnifico S. Girolamo eseguito da Tiziano Vecellio, che ha quasi il sapore dell’incompiuto per via delle gagliarde pennellate sintetiche tipiche della sua felice anzianità, si capisce come l’artista avvertisse la tecnica quasi come una entità vivente, le cui regole erano leggi pronunciate da una voce vivente. Nonostante i toni bruni dello sfondo lasciati quasi allo stato di “abbozzo”, traspare in ogni centimetro la capacità di registrare le pennellate e incrociarle in modo da far rilucere il bianco di piombo, per quanto oggi risulti un po’ coperto dalle pesanti vernici finali. Questo elemento può essere molto evidente, almeno al nostro sguardo occidentale, nell’arte orientale; l’artista, infatti, era addirittura certo che avrebbe potuto raggiungere la sua idea di illuminazione attraverso la rappresentazione della natura, sapendo di dover però prima dominare regole oggettive, nel perenne mutamento degli elementi naturali.

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