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Moda

Fashion e identità

“Mai giudicare un libro dalla copertina”: è questo il monito che ci viene indicato più spesso, sin da bambini, quando dobbiamo osservare qualcuno o qualcosa.

L’idea che non si debba giudicare l’aspetto esteriore o che l’apparenza non conti è un discorso moralmente accettato dai più. Questo precetto tende, però, a scontrarsi con il concetto di moda. Infatti, dall’elegantissima corte di Luigi XIV alle creste colorate dei giovani punk inglesi, dai popolari e fantasiosi sari delle donne indiane alle famose sfilate parigine, il modo in cui vestiamo ha sempre suggerito molto a proposito di ciò che ci piace, dei valori in cui ci identifichiamo e, in alcuni casi, dei principi in cui crediamo. La stessa parola “moda” deriva dal latino modus, che potrebbe essere tradotto con maniera, norma, ritmo e così via, suggerendoci un modello cadenzato da seguire. Questa definizione si avvicina di molto all’habitus definito da Pierre Bourdieau, che ingloba nel “vestito” l’aspetto comportamentale, gli abiti e le abitudini; cioè tutto ciò che è culturalmente condiviso. Tuttavia, se pensiamo alle tendenze, uno degli elementi fondamentali è sicuramente l’aspetto del cambiamento. Non a caso, è sul campo della moda che si giocano ridefinizioni personali e spinte rivoluzionarie. Pensiamo alla condizione femminile e alle ininterrotte lotte attraverso i vestiti: il diritto di indossare i pantaloni o la minigonna, le continue controversie sul velo, etc.

La moda sembrerebbe costituire, quindi, qualcosa che va ben oltre al semplice apprezzamento di uno stile o di un aspetto iconografico codificato. Seguendo una funzione narrativa, la forza della moda risiede nella sua capacità di parlare di ciò che siamo, ma anche di quello che potremmo (o vorremmo) diventare: una performance-rito quotidiana in grado di mettere in scena sempre nuove identità e relazioni.

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