Le gerarchie sono diverse, si distinguono in termini di status sociale, denaro, potere. Ma c’è una gerarchia che esiste e unisce tutte le società e ogni tempo, la gerarchia di genere.
Si parla di gerarchia poiché uomini e donne non sono soltanto diversi per sesso, parlando in termini biologici, ma da sempre il genere maschile è stato considerato superiore a quello femminile.
Le ragioni alla base di una tale discrepanza sono molte ed è difficile trovarne una che spieghi effettivamente il perché di una tale differenza di status tra uomo e donna.
Le principali teorie vertono sulla forza fisica quale spiegazione della supremazia dell’uomo, ma si tratta di una teoria che non trova un vero riscontro considerato che da sempre la donna ha dimostrato di avere risorse fisiche anche superiori a quelle dell’uomo essendo più resistente alle malattie, alla fame e alla fatica; basti pensare al momento del parto.
Altre teorie affidano all’aggressività, che pare essere una caratteristica tipicamente maschile, la responsabilità di un tale dislivello. Ma se l’aggressività è degli uomini, volendo restare legati ai più comuni stereotipi, allora consideriamo la cooperazione e la riflessività delle donne. Anche seguendo questo luogo comune però, chi dice che l’aggressività sia migliore della pace?
Sigmund Freud, con la sua teoria sull’invidia del pene, ha contribuito a condizionare l’idea che il genere femminile sia mancante di qualcosa, portando a intendere la femminilità come sinonimo di passività, di “meno” rispetto al maschile.
In ogni disciplina, in realtà, il valore degli uomini è più facilmente riconosciuto e diffuso, basti pensare alla discrepanza esistente tra poeti e artisti maschi e femmine, e non perché ci siano meno pittrici, poetesse o artiste in generale; è una questione di riconoscimento.
Nel tempo la disparità biologica tra uomo e donna è stata arricchita da concetti culturali, che di biologico hanno poco e che dettano “legge” riguardo ai ruoli e al corpo.
La biologia, ad esempio, permette a persone dello stesso sesso di avere rapporti sessuali, ma in molte culture questo è proibito e in moltissime altre è comunque oggetto di discriminazioni.
Di contro, la possibilità biologicamente determinata delle donne di avere figli, in molte culture è considerata un obbligo e anche dove questo non succede, si tende a considerare la donna incompleta se non assolve a quello che è da sempre considerato il suo ruolo specifico: procreare.
Il patriarcato è quindi da sempre un’organizzazione universale, che solo negli ultimi tempi, in alcune società e non senza difficoltà, sta iniziando a vacillare lievemente. Un piccolo, grande passo in direzione dell’uguaglianza di genere è avvenuto in questi giorni.
Il 27 Aprile 2022, infatti, la Corte Costituzionale ha dichiarato “illegittime tutte le norme che attribuiscono automaticamente il cognome del padre”. Da ora, i figli assumeranno il cognome di entrambi i genitori nell’ordine concordato da questi, oppure soltanto uno dei due cognomi, se c’è accordo tra i genitori.
Questa sentenza pone fine ad una tradizione millenaria che impone ai figli di prendere il cognome paterno. Un ulteriore simbolo di patriarcato, che in molti Paesi del mondo era già stato scardinato, ma in Italia si trattava di una tradizione talmente radicata che non si era ritenuto necessario includerla in forma di legge, nemmeno nel codice civile.
Dunque, un passo per il nostro Paese verso la parità dei diritti, che è ancora ben lontana dall’essere raggiunta, perché resta ancora forte l’idea che ognuno debba avere il proprio ruolo, un pregiudizio a cui, proprio per questo, è difficile rinunciare.