Sul finire del 2018, a Roma, le ultime chiusure portano nomi d’alto lignaggio: Reale a Trastevere, Royal all’Esquilino. Clamore minimo, comunque: spente altre due sale cinematografiche, poche voci al capezzale e l’ennesima istantanea di un’estinzione irreversibile. Eppure, c’è qualcuno a non limitarsi al de profundis d’occasione. Non a caso ha meno di 40 anni e, nonostante un budget inesistente, sceglie di certificare il sentimento che resta post-mortem, spariti i “grandi schermi” di rione. Lo fa in chiave di mockumentary (film che narra in stile documentario), con il titolo di Tundra; Tundra come abbandono delle città, chiusura dei luoghi di aggregazione, dei cinema di quartiere surrogati con multischermi senz’anima, centri commerciali e sale da gioco. L’autore è Federico Mattioni, regista, classe 1981, al secondo lungometraggio insieme ad un pugno di attrici ed attori in buona parte giovanissimi, come la 26enne protagonista Giorgia Palmucci.
Uscito in questo 2019, il dna anti-narrativo di Tundra si sgrana tra
l’intercalare di silenzi e racconto, fisicità e monologhi, strutturandosi in
libertà grazie all’assenza di un pilota automatico nella fase di montaggio;
montaggio a cui l’autore affida il carattere della sinfonia, con i suoi
“piano”, “forte”, “adagio”, “andante”. Originale e controcorrente, il film si
compone in mix di generi cari al regista nato nella provincia viterbese: dal
noir alla commedia all’italiana, dal grottesco al musical, dall’horror al road
movie, stessa cifra quest’ultima dell’acerbo film d’esordio, Dalle parti di
Astrid. Tanta mescolanza si anima di piani sequenza lunghi, consecutivi, con le
due protagoniste, una giovane donna e una bambina, che attraversano i paraggi
circostanti almeno 8 cinema chiusi della Capitale, incontrando svariate forme
di umanità.
È il 2027, e chi abita quei luoghi non è poi molto dissimile dall’odierno: solo un po’ più deteriore, monade, insulsa appendice della virtualità totalitaria del pixel. Sostiene Mattioni che, prendendo coscienza dello status di questa umanità, le due protagoniste potranno compiere la propria missione: ritrovare la pellicola che disvelerà l’impronta poetica del cinema. Lungo l’itinerario, alcune citazioni impreziosiscono l’espressività di attrici ed attori; tra queste, la rivisitazione della scena del pasto contenuta nel film Tom Jones, qui rianimata in assoli bulimici, gravidi di bramosia animalesca. Su tutto aleggia un esibizionismo forzato, protagonista incontrastato – secondo Mattioni – di questo inizio secolo; da qui la scena del litigio tra un russo ed una francese, in cui ognuno recita nella propria lingua, nonostante i due conoscano l’italiano. Uno sketch imperniato sul paradosso dell’incomunicabilità odierna, in un tempo traboccante mezzi di comunicazione; o solo una gag, sintesi tra macchiette del primo Carlo Verdone ed il teatro dell’assurdo, in un costante scivolamento di significato tra “parlarsi è scontrarsi, scontrarsi è mostrarsi”.
Qualunque sia il giudizio su Tundra, al suo autore va riconosciuto un
merito: aver condotto il cinema tra i resti delle sale di quartiere. Dalla fine
degli ’80, solo a Roma sarebbero stati chiusi circa 80 cinema, in maggioranza
mono-sale. Dati recenti indicano invece quota 50. Davanti a tante voci
allarmistiche, tuttavia, c’è chi sostiene si sia invece verificata una positiva
inversione di tendenza, grazie all’equazione [spazi concentrati = + schermi +
offerta + sostenibilità economica (leggasi multisale)]: anche fosse solo così,
la scintilla di Tundra avrebbe ancora più ragione di scoccare, nel buio, tra le
sale spente.