Un reietto, misconosciuto sociale, talvolta patetica figura di ometto o donnina che riversa le sue frustrazioni su un popolo di giovani assetati di cultura e delusi dalla pochezza dell’offerta.
Quanta differenza da cent’anni fa, quando il maestro era il Signor maestro e il Professore un docente burbero ma benevolo, sempre maschio: la maestrina aveva la penna rossa e continuava ad essere solo minuscola, anche negli appellativi.
Ecco: ma sono passati cento anni, due o tre guerre, il boom economico, l’alfabetizzazione, una rivoluzione studentesca, tante di quelle riforme della Scuola da giustificare il glorioso sorgere d una cattedrale di sapere ove tutto funzioni perfettamente, ma che resta invece il Castello di kafkiana memoria.
Molto è cambiato, non c’è dubbio, ma quella via di mezzo tra soggezione ansiogena e menefreghismo disperato non si è trovata: i docenti hanno progressivamente perso riconoscimento sociale, per i più vari e ragionati motivi – neppure così rilevanti, comunque, da approdare ai salotti modè che in tv riempiono serate orfane di programmi più gettonati, Grandi fratelli, Isole famose -.
La Scuola si è imbottita di studenti sempre più difficili, e, diciamolo, più somari – ma non simpaticamente asini, proprio somari e basta, difesi da genitori talvolta irresponsabili – e di docenti sempre meno considerati, alcuni dei quali, se partiti con l’entusiasmo della preparazione disciplinare e umana, hanno dovuto fare i conti con una situazione professionale e sociale gravemente problematica.
Poi è arrivata la peste: quella vera, alla quale non si scappa.
E l’Italia si è accorta che il maestro, maestra, docenti uniti da una par condicio pandemica servono; o meglio, servirebbero, se fossero in numero sufficiente, se fossero aggiornati in maniera adeguata, se fossero assistiti da una normale tutela sul lavoro; come spesso accade, un meccanismo, anche malfunzionante, quando si inceppa, rivela la sua essenzialità per il sistema di cui fa parte.
Allora la Scuola è divenuta il luogo importante, ove lo studente socializza, si rapporta con il suo prossimo, supera posizioni centriche e, incidentalmente, impara qualcosa. In effetti quel che ha fatto notare il fenomeno è che i genitori non sapevano più dove cacciare i figli e, tenendoli a casa, si sono accorti di quanto i figli medesimi esistessero. Non stiamo tuttavia a sottilizzare; sta di fatto che quegli stessi individui poco spieganti, ignoranti e vacanzieri si sono rimboccati le maniche, hanno messo in piedi una scuola alternativa, imparato ad usare – per insegnare, ovvero trasmettere sapere- strumenti e metodi digitali in un mese scarso e hanno adeguato la scuola alla casa, loro e dei loro studenti, piccoli, grandi o medi che fossero.
Hanno ascoltato madri isteriche, consolato padri perplessi, mantenuto livelli di apprendimento sorprendenti, svolto programmi, progetti extracurricolari e surrogato incontri reali attraverso conference sbilenche, ove chi c’era non sentiva, chi scompariva però riusciva a parlare, chi, se vedeva e sentiva, non era il secchione, ma uno con una connessione da sballo, dietro allo schermo del quale passava talvolta una nonna a salutare il prof., tanto carino.
E ce l’abbiamo fatta, più o meno. Abbiamo avuto platee strambe, certo: ma siamo arrivati al dunque, nonostante pandemia, collegamenti balordi, programmi da finire, novità introdotte con la sagacia che contraddistingue chi legifera – il curricolo di Educazione Civica, i nuovi PCTO… -nonostante noi stessi. Gli allievi hanno studiato, appreso, acquisito.
E siamo riusciti anche a tirar fuori buone cose, oltre le conoscenze, la formazione, le competenze: abilità straordinarie, come quel ringraziarsi reciprocamente per aver condiviso con i ragazzi fatica e progressi, senza sconti, o il mettersi in gioco insieme agli studenti, per far loro affrontare paure che non scorderanno più, come noi, del resto. Vecchi professori. Signori professori.